Nunzio Lobasso: Note sulle tele 2008

di Giovanni Cipriani

È noto quell’aneddoto, trasmesso da Plinio fra gli altri, secondo cui il pittore Zeusi, in gara con il collega Parrasio, riuscì a ingannare uno stormo di uccelli, attratti dalla tela dell’artista e, in particolare, dai grappoli d’uva dipinti con tanta maestria da sembrare veri. Il certamen, in verità, si risolse alla fine con la vittoria dell’ancor più abile Parrasio, che riuscì a farsi gioco, con lo stesso meccanismo dell’ ‘illusione’, non di ingenui animali senza raziocinio, ma persino del suo competitor Zeusi: questi, infatti, di fronte al quadro dell’avversario, chiese che se ne tirasse giù quella tela che, in verità, sullo stesso quadro era stata soltanto dipinta. L’episodio, ancora notissimo diversi secoli dopo i fatti presumibilmente avvenuti alla fine del V secolo, sintetizza bene gli obiettivi e, al fondo, la vera ‘missione’ che, secondo gli antichi, dovevano animare l’opera di un artista. I segni e i colori, come anche le forme plastiche realizzate da uno scultore, dovevano‘ricreare’ e, come per incanto, replicare la realtà esistente, imitandone e ‘fotografandone’ ogni minimo dettaglio, con la massima fedeltà e aderenza all’originale. I prodotti dell’arte, insomma, si candidavano a essere un ‘clone’ della superficie visibile del mondo (della species, avrebbero detto i Latini). Del resto, è proprio questa la ragione per cui i filosofi (Platone, in primis) spesso si pronunciarono a sfavore di quei prodotti ‘mirabili’ ma falsi: per chi rifletteva sulle strategie del pensiero, còlto nelle sue abilità analitiche e creative, le opere di un artista (pedissequo imitatore della realtà) non erano che delle volgari e pericolose contraffazioni. Né deve essere casuale il fatto che, a proposito dello stesso Parrasio, i declamatori antichi avessero lasciato traccia di discutibilissime pratiche di tortura, operate a danno di un anziano schiavo, che, nel frangente, doveva fungere da ‘modello vivente’ della sofferenza di Prometeo: il pittore, questa volta, tenendo fede alla sua verve di ‘illusionista’, aveva persino commesso un reato, pur di garantire al suo pubblico un’immagine efficace e ‘realistica’ del dolente personaggio mitico.

La lunga premessa serve qui a evocare, e contrario, il ricco repertorio di tele già realizzato dal giovane Nunzio Lobasso. Memore della tradizione tardo-ottocentesca e novecentesca, Lobasso prende le distanze con convinzione e nettezza proprio da quell’idea meramente ‘mimetica’ dell’arte espressa, fa l’altro, dai nostri curiosi aneddoti latini. Lobasso reifica, piuttosto, nei suoi contorni neri e marcati, nelle sue dense superfici di colore volutamente prive di sfumature, nelle sue linee angolose e spezzate, una visione autenticamente ‘creativa’ della pittura. L’artista foggiano non disegna, del resto, soltanto anatomie umane o animali (mi riferisco, ad esempio, a Faccia di elefante, 2008), ma anche concetti e fenomeni della psiche, ‘tradotti’ sempre in un segno abrupto ed essenziale (efficaci, in tal senso, sono Gelosia e paura, 2008 e Uguaglianza, 2008). Nel far questo, l’artista si serve di un codice (quello geometrico) pronto ad avallare operazioni di ‘vivisezione’ della realtà fisica e sentimentale: compresso, frantumato e combinato secondo punti di vista differenti, lo spazio figurativo appare scomposto, mentre i volti e i corpi umani, brutalmente divisi in pezzi spigolosi, sono sottratti allo sguardo autoritario della prospettiva centrale e restituiti, piuttosto, a una vista prismatica e multiprospettica. Si leggono, in qualche opera di Lobasso, i sapienti richiami, godibili anche per la loro evidenza, alle sagome ‘tagliate con l’accetta’ da Picasso cubista, alle sue figure deformate e sezionate dai duri tratteggi, alla sua implacabile opera di frantumazione della realtà, suddivisa anche in parti incompatibili tra loro. Fissi e impietriti, i volti dipinti da Lobasso (si pensi a Donna seduta, 2008; Danzatrice, 2008; Uomo in fuga, 2008; Ritratto di ragazza, 2008) tradiscono percezioni e ‘fantasie’ inquiete, a stento dissimulate dalle tonalità solari che si addensano su tutte le ultime tele dell’artista. Il suo sguardo sulla realtà non ammette la ricerca di false armonie e anche la ‘geometrizzazione’ radicale, perseguita da Lobasso, non esprime una tensione all’ordine: essa, al contrario, serve a far esplodere quei conflitti, invisibili sulla superficie -precaria, ma piatta- del mondo reale. L’insistente ricorso a forme geometriche primarie (l’ovale, il rettangolo e il cerchio, come insegnava Cézanne) sembra orientato non tanto a fissare gli oggetti nella loro morfologia più semplice e, quindi, a renderli immediatamente riconoscibili, quanto a marcare la relazione di subordine che i corpi disegnati sulla tela vivono rispetto alla mano dell’artista. Non è solo la mano di Lobasso, d’altro canto, a manipolare, ‘per gioco’, le forme naturali degli oggetti, costruendo volumi giustapposti e surreali; anche il suo occhio, con forza deformante e creatrice, compenetra, in profondità, le sfocate figure che appartengono alla vita di ogni giorno, astraendone, in vista della loro resa pittorica, anche le più nette contraddizioni. Lobasso -è ovvio- non imita e non vuole imitare la realtà, ma, con qualche punta di narcisismo, punta a ‘ricreare’ un orizzonte altro e straniato, nuovo e quanto più possibile assoggettato alla capacità ‘poietica’ dell’artista. Il percorso, di cui l’opera di Lobasso rappresenta soltanto l’ultima tappa, è, insomma, quello che dal prodotto artistico come raffinato ‘surrogato’ della realtà ha via via condotto, già agli albori del secolo scorso, alla completa autonomia dell’arte. Con buona pace di Zeusi e del suo più accorto e crudele rivale, i segni e i colori, abiurata da tempo ogni funzione ‘vicaria’, sono diventati (così è anche nell’opera di Lobasso) uno strumento ermeneutico, piegato all’interpretazione delle strutture più profonde della realtà, ‘rivista’ e poi ‘rifatta’ dentro lo spazio libero e vergine della tabula.

Giovanni Cipriani Preside della Facoltà di Letteratura Latina all'Università degli Studi di Foggia